Stavolta non furono i mille di Garibaldi, pronti a salpare per riunire l’Italia sotto un unico regno, a scrivere la storia. L’8 maggio 2016 a scrivere la pagina più importante furono i mille (e più) dell’Udinese, decisi a raggiungere lo Stadio Atleti Azzurri d’Italia per giocare come dodicesimi la partita della vita, quella del dentro o fuori. Dei sostenitori unici, pronti a tifare nonostante le tantissime delusioni che hanno dovuto affrontare e volenterosi di evitare le polemiche, uniti come non mai nel continuare ad amare l’Udinese senza se e ma. In palio c’era un traguardo inaspettato, a cui si erano abituati e che davano per certo da più di vent’anni: la serie A. Un obiettivo che è iniziato a traballare a metà stagione con cali di tensione e tracolli inaspettati, risultati che hanno aperto la strada per la picchiata in discesa della formazione bianconera. Una vera e propria scivolata in grande stile, che ha fatto penare non poco i friulani.
Tralasciando i punti della classifica, si era seriamente preoccupati semplicemente perché non si aveva più fiducia delle promesse decantate ai mille venti dai vari componenti dell’Udinese Calcio. Promesse puntualmente ed incredibilmente disattese, giornata dopo giornata. La lista dei personaggi che alle parole non hanno fatto seguire i fatti è lunga. Ma alla fine chi va in campo sono undici calciatori, undici uomini che dovrebbero fare gruppo e aiutarsi l’un l’altro. Troppo spesso in questa stagione ci si è dimenticati delle responsabilità di quelle undici persone che fanno sognare o disperare i propri tifosi. Sono loro gli assoluti protagonisti, non dimentichiamolo mai. Senza gli interpreti non ci sarebbe uno spettacolo. Niente più palla che rotola in rete. Niente più esultanze sugli spalti. Per quanto la società abbia sbagliato e il vecchio allenatore non fosse giusto per la piazza, ci si dimentica che chi va in campo dovrebbe aver voglia di dimostrare il suo valore, a dispetto di tutti i giudizi negativi sul proprio conto o di qualche mugugno di troppo che piove dalle tribune. Perché, diciamocelo, a Udine i calciatori sono trattati con le pinze. E dopotutto i tifosi chiedono il minimo sindacale ai propri beniamini: rispetto ed impegno. Rispetto per quei colori che rappresentano una città, una regione, un modo di essere. Impegno che si concretizza nell’etica del lavoro tipicamente friulana. Un’aspettativa ovvia per chi segue la squadra, ma più volte tradita durante questa stagione. Un po’ anche domenica, nonostante il punticino conquistato e la salvezza matematicamente raggiunta. Sarà per la tensione e la paura che attanaglia le gambe e offusca la mente, ma l’undici bianconero non convince. Anzi, delude ancora una volta. Forse, almeno per stavolta, bisognerebbe andare oltre il bel gioco e guardare solamente alla sostanza. Forse bisognerebbe semplicemente festeggiare per aver evitato l’incubo chiamato serie B. E’ già un bel miracolo considerato l’atteggiamento poco lusinghiero della squadra di fronte alle squadre non proibitive. Ma si resta sempre con l’amaro in bocca e con un pensiero fisso che non se ne vuole andare. Probabilmente se le altre pretendenti per la salvezza non si fossero fermate si sarebbe arrivati alla sfida con il Carpi con l’acqua alla gola. E sarebbe stato uno spareggio per evitare la cadetteria. Come si sarebbero comportati in quel caso i giocatori udinesi? Avrebbero onorato con una prestazione degna di questo nome la maglia che indossano? Con i se e con i mai non si va lontano, però il dubbio rimane. Un dubbio che si è levato in cielo anche a Bergamo, quando fra gli applausi di fine partita la gente intonava “L’Udinese siamo noi, solo noi”.
In questo finale di stagione rimangono quindi alcune certezze, perle di saggezza dedotte da questa annata da incubo. L’Udinese del prossimo futuro deve ripartire da un gruppo. Un gruppo vero, formato da gente esperta che si mette a disposizione dei più giovani. Servono dei leader, delle persone che da anni sono in sintonia con la realtà in cui vivono. Degli uomini, prima che calciatori, che sappiano trasmettere ai nuovi arrivati che il rispetto non significa solo evitare di fare interviste dove si proclama amore incondizionato per la futura squadra blasonata a cui si spera di approdare. Il rispetto consiste anche nel lavoro quotidiano, nel rapporto con i propri tifosi, nel mettere la faccia ed assumersi tutte le responsabilità qualora qualcosa dovesse andare storto. L’era dei vari Pinzi, Domizzi e Di Natale è al capitolo conclusivo. Spaventa l’idea che non si sia pensato già ai loro sostituiti. Terrorizza ancora di più il fatto che nella prossima stagione potrebbe essere schierata ogni domenica una squadra totalmente composta da stranieri. Lungi dall’essere razzisti, l’Udinese non può continuare ad essere sempre e solo una multinazionale “estera”. Dovrebbe avere anche una fetta importante di capitale umano che parla italiano, capace di guidare gli altri nel processo di ambientamento e di crescita nel nostro campionato e, non meno importante, nel nostro Paese. Ma italiani o no, l’insegnamento più importante da trasmettere sarebbe un altro e l’esempio dovrebbe provenire dall’alto, in modo da autoconvincere anche i piani inferiori. L’Udinese Calcio non è solo un negozio dove poter mettersi in mostra per essere acquistati dai magnati del mondo del pallone. L’Udinese Calcio è il simbolo di un territorio con i piedi per terra che, a volte, spera di sognare ed incutere timore alle big e, perché no, un giorno scrivere una favola simile al Leicester. L’Udinese Calcio è seguita da gente unica che amerà e porterà sempre in trionfo chi ha giurato di essergli fedele. Domenica sarà il turno di Totò Di Natale. Stavolta non sarà la carica dei 1001 di Bergamo. Speriamo che sia quella dei 20000. Sicuramente, almeno loro, non tradiranno le aspettative.
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